“Vi si racconta come, venduto per cinquantamila ducati il suo feudo tarentino. Il marito della sovrana si ritirasse sulla montagna adiacente a Polla in vista della “cave” dalle quali il Tanàgro era assorbito, e del breve lago che le acque non interamente smaltite dagli inghiottitoi formavano intorno. Sopra un’isoletta circondata dallo specchio lacustre trascorreva in una torre i suoi giorni, condannata alle soglie della giovinezza a una prigionia senza fine, una innocente fanciulla, la figlia del barone di Sala che, allontanandola, aveva inteso distornare da sé e dalla sua discendenza un’oscura predizione udita quando ella nacque. Sboccia così per un incontro fortuito un tenero amore fra l’esule Augusto (nel racconto questo è il suo nome) e la relegata Clarice che, morto l’unico fratello e poi il padre, viene ritirata dallo zio, signore di Sannicandro, il quale, allo scopo di assicurarsi tutta l’eredità del feudo fraterno, persegue il segreto disegno di darla in moglie ad uno dei selvatici figli cresciuti nella solitudine del suo castello in mezzo alla più fitta boscaglia. La fanciulla imprigionata per l’opposizione dimostrata nella più tetra segreta tra quelle torve mura, evade per una circostanza fortunata e torna ai luoghi del suo amore, quand’ecco la regina Giovanna, a cui il marito aveva invano chiesto lo scioglimento del vincolo matrimoniale appare sulla soglia della cappella del castello di Sala mentre Augusto e Clarice sono davanti all’altare, e ne impedisce le nozze. È allora che la sventurata sposa si ritira in convento. Scomparsa dai luoghi ogni traccia del Solitario, ci soccorre a questo punto la storia che accenna al monarca romito in Francia.”.
"C'era un grumo di fango prima che noi respirassimo
C'era un mito prima che il mito iniziasse...
Da esso nasce la leggenda..."
IL VASO DI PANDORA
Pandora fu una donna mortale creata da Efesto (Vulcano) per ordine di Giove, che voleva punire l'umanità per il dono del fuoco fattole da Prometeo. A lei tutte le divinità dell'Olimpo donarono ogni sorta di pregi e virtù; da qui il nome: Pandora, tutta un dono. Dal maligno Mercurio, però, le fu donata anche la curiosità, quell'invincibile forza che la spinse ad aprire lo scrigno (il vaso di Pandora) che le aveva donato Giove, e dal quale scaturirono poi sulla Terra tutti i mali da cui venne afflitto il genere umano.
Prometeo. Uno dei Titani, personaggio importante della mitologia greca perché simboleggia la ragione umana e la ribellione al dispotismo autoritario. Fu colui che rubò il fuoco agli dèi per farne dono all'uomo. Atto che gli procurò le ire di Giove, che comandò al dio Vulcano d'incatenarlo solidamente sul monte Càucaso, dove un'aquila gli divorava il fegato continuamente rinascente. Da questo eterno supplizio fu liberato da Ercole, che uccise l'aquila vorace con una delle sue infallibili frecce. Oltre che per il fuoco donato agli uomini, Prometeo fu considerato, nella tradizione mitologica, un benefattore dell'umanità per gli altri insegnamenti che le diede nel campo della conoscenza e dell'arte, e che fecero di lui l'ispiratore della prima era di civiltà e di progresso.
Gente, se vi vengono a raccontare che tutti i mali esistenti a questo mondo ci sono capitati fra capo e collo per quel peccatuccio commesso dalla venerabile madre Eva in quel negozietto di frutta e verdura che era il Paradiso Terrestre, non dategli retta; le cose non sono andate così. C’è sempre di mezzo una donna, ma in realtà si è venuto a scoprire che si chiamava Pandora, una bella mortale piena di tante buone qualità donatele dai Vip dell’Olimpo ma che, come Eva, si dimostrò altrettanto svampita da far cadere il mondo in quel po’ po’ di casino di cui tutti siamo beneficiari: il dolore, l’infelicità, la morte. Bel guaio, eh?
Vi racconto com’è andata, cominciando dall’antefatto. A uno stretto parente di Zeus, un certo Prométeo, imparentato un po’ con tutta la jet-society dell’Olimpo, un giorno venne un’idea rivoluzionaria, direi quasi “comunisteggiante”: far partecipare anche la derelitta umanità almeno a uno di quei benefici di cui sino allora avevano goduto in esclusiva solo gli dèi. E pensò, per esempio, di rubare agli Olimpici il fuoco, facendone un bene di tutti. “Perché - deve essersi chiesto - gli uomini devono mangiare carne cruda, non possono accendere il termosifone e devono fare la doccia con l’acqua fredda?”. Gran benefattore, non c’è che dire. Grazie a lui e a quell’altro benemerito di Bacco che ci ha fatto il regalo del vino, oggi l’uomo mangia cibi cotti, si abbuffa, si sbronza... e digerisce meglio.
Ma - chissà perché - quei bricconcelli degli dèi (e tutti quelli che nella vita manovrano la stanza dei bottoni) sono sempre stati gelosi dei loro privilegi, contrariati dal fatto che il meschino subalterno uomo riuscisse a godere in qualche modo di quello che era “loro” in esclusiva. E mal gliene incolse, quindi, al povero Prometeo (vai a fare del bene alla gente), reo di aver commesso in sostanza un reato di spionaggio industriale. Il burbero Giove, che, fra un amorazzo e l’altro, trovava anche il tempo di consultare i sondaggi demoscopici, si accorse con vivo disappunto che, col dono di Prometeo, l’umanità era diventata più felice e baldanzosa, perché aveva anch’essa un bene “in comune” con gli dèi.
E fulminea, è il caso di dirlo, è la reazione di Giove contro il nostro anti-G-8 dell’epoca: lo sbatte su un’alta rupe di un monte sperduto, ce lo incatena per bene e lo fa sollazzare ogni santo giorno dalla rapacità di un’aquila che gli divora il fegato; il fegato ricresce durante la notte, e l’indomani il rapace riprende il suo pasto. Niente male in quanto a inventiva, questi dèi. E non è finita qui.
Il padre Giove si spinge anche oltre nel rimettere le cose a posto, come erano… ai bei tempi dell’Ancient Régime: l’uomo comincia a essere più felice e più sicuro di sé? Niente paura, ci penso io. E, pensa che ti ripensa, ne inventa un’altra; escogitare qualche altro malanno per la vita dell’uomo, per un dio è uno scherzetto da ridere. E decide di farcene dono.
Il fantasioso Padre degli dèi aveva alle sue dipendenze un certo Efesto, il Vulcano dei latini, il defraudato dio del fuoco che si occupava di acciaierie, altiforni, industria pesante. A lui, che sapeva far uscire dalle sue fabbriche anche mirabili oggetti d’arte (come fu poi lo scudo di Achille, di omerica memoria), Giove dà un incarico di alta creatività: “Créami una donna - gli dice - , falla con terra impastata con l’acqua, ma deve venir fuori un capolavoro, una donna bellissima. Voglio punire l’alterigia degli uomini, e lei sarà la mia vendetta”. Efesto, che aveva un atélier ben attrezzato dove pare avesse reclutato i migliori art-designers reperibili sulla piazza, non se lo fece dire due volte, e gli modellò con la creta un pezzo di ragazza che era di una bellezza da capogiro, alla quale Giove, a sua volta, infuse la vita col suo divino alito, forse un po’ appesantito da una cena troppo abbondante la sera prima.
Ma torniamo alla nostra donzella, ormai in carne e ossa, e con nel sangue la linfa vitale infùsale da un dio; e a questa donzella il padre Giove dà un nome: la chiama Pandora, che in greco vuol dire “tutta un dono”.
Racchiudeva in sé, in effetti, ogni ben di dio, questa novella nata; tutti gli dèi le avevano fatto un regalo mentre si accingeva a lasciare l’Olimpo per scendere fra i mortali: da Venere aveva avuto il fascino, da Minerva la vivacità d’intelletto, da Giunone le doti di buona moglie, e da Giove tutte le caratteristiche di una gran…. buonadonna.
Perché in effetti una gran buonadonna si rivelò ben presto, combinando quel po’ po’ di guai in cui da allora noi tapini mortali ci dibattiamo: i mali della vita. Giove infatti, quel bricconcello, le aveva fatto dono anche di un vaso ben sigillato, con l’ordine perentorio di non aprirlo mai: un po’ come la proibizione di mangiare una certa mela, fatta ad un’altra svampitella, una certa Eva, in un'altra pagina delle umane credenze religiose… ( Curiosi, però, questi dèi: ci mettono davanti a un bel melo ma ci vietano di mangiare i suoi frutti; ci fanno un regalo ma ci dicono di non aprirlo…. Ma c’è un perché: dovevano insegnare all’uomo chi era il “capobranco”, imporgli dei paletti nel comportamento, e dettargli delle leggi morali: è lo scopo benefico di tutte le religioni; e di tutti i grandi uomini di cui è piena la storia delle religioni. Mosè disse che i dieci Comandamenti glieli aveva dettati Dio: in effetti fu lui un grande legislatore, che creò regole per rimettere in riga e sotto controllo quelle ingovernabili tribù che erano allora il popolo d'Israele ).
LEGGENDA DELLA TOSCANA (IL MITO DI CHIMERA)
Chimera Suo padre fu Tifone, il cui corpo gigantesco culminava in cento teste di drago. Giace relegato sotto una delle isole vulcaniche della nostra terra (Ischia o la Sicilia), ancora fremente della rabbia che lo porto' un giorno lontano a sfidare gli dei, a cacciarli dall'Olimpo ed a ferire Zeus. Sua madre fu Echidna, la vipera, per meta' donna bellissima e per meta' orribile serpente maculato. Viveva in un antro delle terre di Lidia, cibandosi della carne degli sventurati viaggiatori. Chimera e' solo uno degli esseri mostruosi generati da Tifone ed Echidna. Suoi fratelli furono Cerbero, cane infernale dalle tre teste, la famosa Idra uccisa da Eracle, e Ortro feroce cane a due teste guardiano delle mandrie del gigante Gerione. Chimera e' la personificazione della Tempesta, la sua voce e' il tuono. Molte e diverse sono le rappresentazioni iconografiche del mostro leggendario. Probabilmente ad Esiodo (Teogonia) si ispiro' l'artista che la raffiguro' a Cerveteri con tre teste frontali, le cui due laterali di leone e di drago e la centrale di capra. All'Iliade invece sembra ispirato l'artefice della Chimera di Arezzo, leone davanti, capra sul dorso e serpente dietro. "Lion la testa, il petto capra, e drago la coda; e dalla bocca orrende vampe vomitava di foco ... (Iliade, VI, 223-225 trad.V.Monti) Il mito di Chimera Chimera fu allevata dal re Amissodore e per lunghi anni terrorizzo' le coste dell' attuale Turchia, seminando distruzioni e pestilenze. Fu Bellerofonte, eroe da molti ritenuto figlio del dio Poseidone, a fermare le scorribande del mitico mostro. Con l'aiuto di Pegaso Bellerofonte riusci a sconfiggere Chimera con le sue stesse, terribili, armi, infatti "...non c'era freccia o lancia che avrebbe presto potuto ucciderla." 1 Allora Bellerofonte immerse la punta del giavellotto nelle fauci della belva, il fuoco che ne usciva sciolse il piombo che uccise l'animale. Come gia' aveva fatto Perseo con Medusa, anche Bellerofonte abilmente seppe sconfiggere la creatura facendo si' che la sua forza si ritorcesse contro di lei. La Chimera d'Arezzo Capolavoro in bronzo della scultura etrusca (V-IV sec.a.C.). Fu scoperta nel 1553 nelle campagne di Arezzo e restaurata da Benvenuto Cellini, fu conservata per un periodo in Palazzo Vecchio dove Cosimo I dei Medici la volle accanto al proprio trono, fu poi spostata nella villa medicea di Castello perche' la sua presenza in Palazzo Vecchio era ritenuta funesta. L'originale e' adesso conservato al Museo Archeologico di Firenze mentre sono visibili due copie bronzee leggermente piu' grandi, collocate nella prima meta' di questo secolo ad ornare le due fontane in piazza della Stazione ad Arezzo. "Khimaira" Chimera prende il nome dalla caratteristica che la diversifica dai genitori, la testa di capra infatti non trova riscontro ne' in Tifone ne' in Echidna e ne diviene cosi' tratto peculiare. "Infatti Chimera, in greco Khimaira, significa capra"2. E "la capra e' ...il piu' selvatico tra i domestici e il piu' domestico tra gli animali selvatici." Ed e' in quest'ottica che si indicano tre significati simboleggiati da Chimera: il leone e' la forza, il calore e quindi l'estate; il serpente e' la terra, l'oscurita' e quindi l'inverno, la vecchiaia; la capra e' il passaggio, la transizione e quindi autunno e primavera. E sempre in quest'ottica si legge la dedica a Tinia, il mutevole Giove etrusco, iscritta sulla zampa anteriore destra della Chimera. "Non sia da meravigliarsi quindi che al sommo dio degli etruschi, principio cangiante di ogni cosa, venisse dedicata la multiaspetto velocissima Chimera".3 1 - F.Fabbroni, "La Chimera", Arezzo, 1998 p.8 2 - F.Fabbroni, "La Chimera", Arezzo, 1998 p.5 3 - F.Fabbroni, "La Chimera", Arezzo, 1998 p.14
LEGGENDA DELLA CAMPANIA (PULCINELLA)
L'origine della maschera tradizionale partenopea è lontana ed incerta così pure il significato del suo nome. C'è chi lo vuole discendere da ' Pulcinello ' cioè piccolo pulcino per via del suo naso adunco, chi invece propende per ' Puccio d'Aniello ' un villano di Acerra del '600 che dopo aver preso in giro una compagnia di commedianti girovaghi si unì a loro come buffone. La maschera di Pulcinella ha la sua variante francese in ' Polichinelle ' , un fanfarone gradasso con doppia gobba e un vestito vistoso e una inglese con ' Punch ' dall' umore malinconico e brutale. Esiste un momento centrale ed illuminante, nella storia dei rapporti fra Pulcinella e Napoli, fra Pulcinella ed il teatro ed, in particolare, fra Pulcinella e l'attore : esso coincide con la fine del '600 e l'inizio del '700, allorché la storia dello spettacolo a Napoli si fa suggestiva misura della storia stessa della città e della sua vita culturale. Vi fiorisce un teatro di prosa dialettale, espressione di una straordinaria attenzione alla lingua ed al costume; vi nasce una ricca e fertile generazione di teatranti: teorici, drammaturghi e commediografi, librettisti, musicisti, attori e cantanti, impresari; vi si rinnovano le strutture cittadine di spettacolo: si apre il San Carlo e, all'estremo opposto del consumo sociale del teatro, il non meno nobile San Carlino; si afferma la commedia in musica, detta opera buffa, capace di espandersi ed affermarsi per l'intera Europa con caratteri che hanno fatto pensare addirittura ad una ' scuola musicale napoletana '; sopratutto, il teatro rinasce, dopo esaltanti esperienze della commedia dell'arte praticata trionfalmente in Europa per tutto il '600 ed in questa prima metà del '700. La maschera ha rappresentato e rappresenta tuttora la ' plebe napoletana ' da sempre oppressa dai vari potenti che si sono succeduti, affamata e volgare, smargiassa, codarda e dissacrante. Molti attori hanno impersonato sulla scena il personaggio di Pulcinella ma il più famoso di tutti è stato Antonio Petito trionfatore sul palcoscenico del San Carlino che, nonostante fosse quasi analfabeta, scrisse alcune commedie di grande successo che avevano come protagonista lo stesso Pulcinella.
Ciccio di Viggiano
Nella povera capanna regnava la più cupa tristezza.
Il babbo era morto, la povertà e la fame opprimevano i suoi due figlioletti: Frungillo e Menicuzzo, rimasti soli con la madre.
«Come si fa, adesso?» chiedeva tutta sconsolata la donna.
E i due bambini, non sapendo che cosa rispondere, andavano a sedersi sulla soglia e, per ingannare la fame, sognavano carriole d'oro piene di patate fumanti, una montagna di formaggio pecorino, una casina fatta interamente di zucchero.
Un giorno, mentre così sognavano, arrivò un vecchio magro e asciutto che portava a tracolla una chitarra e aveva in mano un flauto.
Egli aveva anche sulle spalle un sacco gonfio che i fanciulli guardavano pieni di speranza.
«Io sono Ciccio, amico del vostro povero babbo» disse questo strano personaggio «e vengo da Viggiano, il paese della musica. Questi due strumenti mi furono affidati da vostro padre quando, ormai arricchito, si comprò questa capanna per sposarsi. Anch' io ora mi sono fatto un bel gruzzolo e aiuterò voi!».
Così dicendo tolse dal sacco una grossa pagnotta a forma di ciambella guarnita di uova sode e la pose in grembo alla donna, che lo guardò con occhi lucenti di commozione e di gratitudine per quella generosità insperata.
Finalmente qualcuno pensava ai suoi figli! Dopodiché l'uomo cominciò a suonare allegre ariette popolari.
I ragazzi, che già si erano mossi verso il pane, s' immobilizzarono, incantati. «Siete proprio dei veri Lucani, intrisi di musica fino alle ossa!» disse contento l'uomo. «Io vi darò questi strumenti e vi insegnerò a suonarli. Girerete anche voi per il mondo, dando con le canzoni un po' di serenità e di gioia agli uomini, stanchi di lavoro e di fatiche; essi non saranno avari con voi e il benessere tornerà nella capanna; vostra madre non mancherà più di nulla...». L'uomo se ne andò. La donna si accinse a spezzare il pane; il suo volto finalmente era illuminato dalla speranza.
Il Cilento, denominato Enotria da Erodoto, Plinio e Stefano di Bisanzio, è una terra in cui esiste quello che viene detto "il linguaggio dei luoghi", offrendo le sue valli solatie, i suoi colli verdi svariati di querce, di ontani e di castagni, nelle balze ammantate di lentischi, di mirti e di ginestre. Il ceruleo mare cilentano mormora accenti epici virgiliani per aver visto la navicella di Enea e il suo timoniere Palinuro, che, naufrago, fu sbattuto sull'incantevole rupe omonima (Aeternumque locus Palinuri nomen habebit).Palinuro in un alternarsi di panorami ricchi di richiami naturalistici e storici offre comodo e riposante asilo, "e il pensiero si fa poesia" a chi lo percorre lentamente, d'estate o d'inverno, delibando storia e leggenda, cronaca e fantasia.
Il golfo delle sirene
Per i popoli del mare le insidie del sonno sembrano governate da maliose creature, mentre il rischio del naufragio si impersonifica in un demone ostile; il mito delle Sirene è uno dei frutti più fecondi della natura inanimata sulla fantasia umana. Per la gente del posto le sirene sono sacerdotesse, per altri raggi di sole, pericolose scogliere, cannibali del mare, per altri ancora sono simboli di attrazione e spiriti planetari, è nella splendida luce di questi luoghi che Ulisse incontrò le Sirene, in uno di quei periodi di pesante ristagno estivo, conosciuti da queste parti come scirocco chiaro.
Il presepio
All'epoca dei greci era solito donare una statuina di terracotta a Demetra dispensatrice di abbondanza e, in seguito, con l'avvento di Roma lo stesso dono era destinato a Cerere. Quegli ex-voto impastati con l'argilla venivano realizzati nel reticolo dei vicoli napoletani, tutt'intorno alla zona che oggi chiamiamo San Gregorio Armeno. Le figurine pagane di ventiquattro secoli fa erano dette stipi votive. Considerarle antenate dei pastori da presepio è un azzardo di fantasia, eppure è un fatto che in quel limitato perimetro urbano sia continuata una specifica tradizione artigianale. Ancora oggi San Gregorio Armeno, con le sue botteghe, con le sue bancarelle, è il luogo del Natale napoletano, la meta obbligatoria di una passeggiata sentimentale alla ricerca di un pezzo nuovo da collocare sul presepio. Il Protovangelo di Giacomo narra che nell'istante stesso in cui nacque Gesù tutto il mondo precipitò nell'immobilità più assoluta. Il presepio racconta quell'attimo che cambiò la storia. Eppure il presepio è tutt'altro che immobilità, non è mai uguale, anno dopo anno si modifica e si arricchisce, specchio continuo degli usi e dei costumi di chi lo cura. Le famiglie napoletane se lo tramandano di generazione in generazione. E se si vuol essere fedeli fino in fondo alla tradizione bisogna collocare i re magi molto lontano dalla grotta e farli avanzare a poco a poco. Tanta ricchezza di personaggi fu estranea all'origine del culto della Natività. I testi evangelici si limitano a raccontare della nascita di Gesù, dell'annuncio ai pastori, dell'adorazione dei Magi. Nuovi elementi destinati a diventare tradizionali vennero aggiunti via via dai Vangeli apocrifi. zoom Erano già cominciate attorno all'ottavo secolo sacre rappresentazioni in costume sulla nascita e la resurrezione di Cristo. All'inizio le recite, assai severe, si tennero all'interno delle chiese, ma poi arrivarono nelle piazze coinvolgendo intere città. Fatalmente il connotato religioso si affievolì e presero il sopravvento elementi di vita sociale. Di questa trasformazione si indignò nel 1207 papa Innocenzo III. Siamo ben dentro i confini del teatro e del folclore devoto e tuttavia è rilevante sottolineare che qui comincia a svilupparsi una raffigurazione plastica della Natività, qui comincia la contaminazione fra il sacro e il profano. Maria e Giuseppe col Bambino, i re Magi vestiti alla palestinese per la prima volta convivono con figure venute dal popolo, vestite in maniera contemporanea. Molti indicano una data precisa della tradizione del presepio e cioè il 24 dicembre 1223 quando San Francesco d'Assisi scelse di onorare il Natale in modo originale. Da tre lustri erano state proibite le sacre rappresentazioni, Francesco d'Assisi, venuto a Greccio, chiese una dispensa al papa Onorio III e ricostruì, presso una grotta nei boschi, la scena della natività; a pochi minuti dalla mezzanotte, i rintocchi delle campane richiamarono a quella grotta tutti gli abitanti di Greccio e dintorni; Francesco all'improvviso sentì un peso tra le braccia, abbassò lo sguardo e vide che il bambinello si era materializzato tra le sue mani; molti devoti di Greccio quella notte giurarono di averlo visto anche loro. Da allora in poi la tradizione dilagò dappertutto. Nel 1458 Martino Simone de Jadena realizzò un presepio a figure staccate per la chiesa di Sant'Agostino della Zecca, purtroppo perduto. Una leggenda tramandata da Proto di Maddaloni dice che un presepio di legno a figure separate fu scolpito a fine 1300 per le clarisse, ma in assenza di prove, le prime raffigurazioni plastiche della Natività a Napoli sono sul sepolcro di marmo del cardinale Arrigo Minutolo nel Duomo e sulla tomba di Maria d'Aragona in Sant'Anna dei Lombardi. Al Museo di San Martino sono conservate le straordinarie figure in legno realizzate nel 1478 da Pietro e Giovanni Alemanno, padre e figlio di evidente origine padana. Sono le superstiti di trentanove statue commissionate da messer Jaconello Pepe per la chiesa di San Giovanni a Carbonara, il Pantheon degli Angioini, dipinte e dorate nel 1484 da Antonietta di Gennaro e Francesco di Felice. Presepi simili, alla fine del Quattrocento, erano esposti a Napoli nelle chiese di Santa Maria la Nova, dell'Annunziata e di Sant'Eligio. Era pure spuntato qualche artista locale di buona vena come Pandolfello da Solofra che aveva realizzato un presepio per la cappella di Bajani a Montoro in Irpinia. zoom Fu un altro lombardo, Pietro Belverte, a inaugurare il Cinquecento partenopeo del presepe scolpendo ventotto figure per i frati di San Domenico Maggiore. La Sacra Famiglia fu sistemata in una grotta di autentiche pietre, altra novità, scandalosa per l'epoca, fu l'introduzione di una taverna nello scenario. Erano maturi i tempi per l'irrompere di un genio napoletano: Giovanni Merliano detto Giovanni da Nola, di cui possiamo ancora ammirare le statue superstiti del suo primo presepe nella chiesa di Santa Maria del Parto a Mergellina. San Gaetano da Thiene, quando arrivò a Napoli, contribuì alla diffusione del presepe; ne costruì personalmente uno per il Natale dei pazienti dell'Ospedale degli Incurabili. Alla fine del Cinquecento anche i conventi fecero a gara per allestire presepi sempre più grandiosi. Dopo i primi due decenni del secolo avvenne la grande svolta; le statue a tutto tondo lasciarono il posto a manichini di legno vestiti di stoffa, con occhi di vetro o pasta vitrea e imponenti parrucche. I prototipi erano stati creati mezzo secolo prima in Germania, ma i manichini napoletani non ebbero rivali per opulenza e dimensioni. Dopo non molto tempo l'altezza fu ridotta arrivando ad una media di 70 cm. Furono gli scolopi della Duchesca ad esporre i manichini più apprezzati a partire dal 1627. Gli scolopi approntarono una serie di importanti novità. Furono i primi a rinunciare alle installazioni fisse, smontando il presepio ogni anno e rimontandolo il Natale successivo. Inoltre inventarono una bella prospettiva in lontananza: il gioco delle diverse misure dei pastori, i più grandi in primo piano, i più piccoli sugli sfondi. Il presepio napoletano guadagnò in teatralità nel 1660 grazie ad una trovata di Michele Perrone. Pur conservando testa e arti di legno i manichini ebbero un'anima flessibile in fil di ferro avvolto nella stoppa. Così le figure potevano torcere il busto, inchinarsi, inginocchiarsi, accentuando la sensazione di movimento. Infine, a fine secolo, le teste dei manichini vennero modellate nella terracotta, altro passaggio verso il vero presepio napoletano. Gli artigiani si ispirarono al più crudo realismo, sul presepio definitivamente dominò il popolo: tavernari, cantanti da concertino, pezzenti, nani. Molto più numerosi i personaggi femminili comprese le contadine col gozzo e le vedove con la testa rapata secondo l'usanza longobarda sopravvissuta nelle province. Le famiglie nobili e ricche cominciarono a fare a gara per esporre un presepe degno di lode, rivolgendosi ai migliori artisti sulla piazza di cui ricordiamo Pietro Ceraso, Giacomo Colombo, Nicola Fumo, Andrea Falcone e Bartolomeo Ranucci. A volte lo scenario occupava intere stanze. I presepi più minuscoli e preziosi venivano invece custoditi in armadietti a vetro detti " scarabattole ", oppure sotto una calotta di vetro a volte decorata da un fondale di astri e di stelle. zoom Il primo re ad avere in dono un presepio fu Filippo V nel 1702. Quando il figlio Carlo salì sul trono di Napoli e della Sicilia, garantì una spinta eccezionale all'arte e alla diffusione del presepio. Carlo era imparentato con i monarchi di tutta Europa e la sua passione per il presepe fu contagiosa. La diffusione del presepio anche nelle fasce più emarginate ebbe inevitabili riflessi sulla produzione. Accanto agli artisti che producevano per i signori e per i luoghi della fede, si moltiplicarono semplici artigiani impegnati a rifornire il popolo minuto. Capofila della schiera degli artisti fu Giuseppe Sanmartino, il più grande scultore napoletano del Settecento ricordato specialmente per il Cristo Velato della Cappella Sansevero e per le tante leggende ad esso correlate. Nella sua scia avanzarono artisti di notevole talento quali: Francesco Celebrano, Domenico Antonio Vaccaro e altri. La richiesta era così ampia, nel secolo d'oro, che tutta la Napoli artigianale s'impegnò nella produzione di presepi toccando alte vette di specializzazione. Specialisti della cera realizzarono strabilianti cestini di frutta e di verdura. Per i costumi sarti importanti come Mastro Matteo e Nicola Ferri si ispirarono ai disegni folcloristici di pittori di buon livello e il valore dell'oreficeria di un solo presepe nobiliare fu valutato in ventimila ducati. Il presepio diventò un documento della vita popolare: in alcuni scenari figurano miseri carruoccioli - carrettino di legno a quattro ruote - a ironica imitazione degli aristocratici volantini tirati da cani e capretti. Il presepio fu anche una galleria di ritratti della nobiltà e della borghesia, giacché molti artisti, a cominciare dal Sanmartino, diedero ad alcune figure le sembianze dei loro mecenati. zoom Il declino del presepio coincise con il tragico fallimento della Repubblica napoletana del 1799. Il rilancio fu avviato da Ferdinando II, ma gli artigiani non erano più quelli di una volta. Grandi artisti a tutto campo al presepio non si accostarono più. Ma generazioni di abili artigiani sopravvissero nelle loro botteghe. Mai la gente napoletana rinunciò al presepio neanche nei momenti di crisi. La tradizione resistette perfino all'invasione della plastica. Agli inizi degli anni Ottanta don Peppino Ferrigno, maestro tuttora in attività, chiese ai parroci dei rioni popolari di pronunciarsi dall'altare a favore della terracotta. La battaglia fu vittoriosa. Oggi San Gregorio Armeno è tornato il crocevia della meraviglia natalizia. Anche molti giovani si sono accostati all'antica arte. Le tecniche sono quelle di una volta, ma sono cambiati i sistemi di propaganda. E' vero, il presepe continua ad essere un giudice infallibile dell'affetto dei napoletani: soltanto chi è molto amato, come Totò, Eduardo, Massimo Troisi, ha diritto di comparire accanto a Razzullo e Sarchiapone, a Benino, ai musicanti. Però c'è anche un ammiccamento a sentimenti diffusi ma lontanissimi dalla tradizione. Negli ultimi anni sono apparse nelle vetrine e sulle bancarelle le figurine di Madre Teresa di Calcutta e di Lady Diana, perfino dello stilista Versace; niente da scandalizzarsi, il presepe tollera tutto.
La leggenda di Castel dell'Ovo
Il discorso sull'esoterismo a Napoli si fa molto interessante nel Medioevo normanno e angioino, quando si sviluppò, e vi trovò enorme credito, la teoria di Virgilio il Mago. I rapporti del grande poeta latino con Neapolis sono moltissimi; la città che ancora ne onora la tomba nel parco di Fuorigrotta che porta il suo nome, presenta due diverse direttrici "d'amore": quella colta che riguarda la sua prestigiosa opera letteraria, e quella popolare che lo venera quale Mago- Salvatore della città stessa; il "Liberatore" da varie iatture come, ad esempio, invasione di insetti o serpenti, con l'ausilio di particolari "incantesimi". La testimonianza più affascinante di questa "credenza" resta il nome di "Castel dell'Ovo" alla turrita struttura dell'isolotto di S. Salvatore, la greca Megaride, unita in seguito alla costa (artificialmente) dal Borgo Marinaro. In effetti l'origine del nome resta alquanto misteriosa se non si analizza bene il "nome" stesso. Per prima cosa gli studiosi di alchimia sanno che il termine uovo o meglio uovo filosofico è il nome "esoterico" dell' Athanor, il piccolo forno chiuso, il matraccio di metallo o di un particolare vetro nel quale avveniva la lenta trasmutazione degli elementi primari - zolfo e mercurio - in metallo "prezioso", L'oro alchemico. Operazione iniziatica che definiva, in effetti, una profonda mutazione dello spirito e dell'intelligenza dell'operatore. A Napoli, nel periodo medioevale, fiorisce una grande scuola ermetica che si occupa di alchimia. I processi di "liquefazione", "soluzione" e "calcinazione" sono favoriti da una particolare terra vulcanica offerta dal Vesuvio mentre la distillazione dell'acqua marina era ritenuta l'unico surrogato alla rugiada raccolta nella notte - l'acqua degli alchimisti - che doveva possedere un grado altissimo di "purezza cosmica". Megaride divenne presto, già nell'età classica, rifugio di eremiti che occuparono le piccole grotte naturali ed i ruderi delle costruzioni romane della grande domus luculliana che dalle pendici di Pizzofalcone giungeva all'isolotto di Megaride. I monaci Basiliani riutilizzarono poi le possenti colonne romane per ornare la sala del loro "cenobio", come ancora si può notare visitando Castel dell'Ovo. E' noto che molte ricerche alchemiche avvenivano celate ai più proprio nel segreto di alcuni monasteri medievali ed è confermata la presenza sull'isolotto di monaci alchimisti. In un antico documento, si legge di un antico amanuense che aveva speso tutta la sua esistenza "... nello studio e nella trascrizione di Virgilio...". E le continue e appassionate ricerche operate da studiosi hanno testimoniato più volte la profonda "cultura virgiliana" della classe colta e religiosa napoletana tra il Medioevo angioino e il Rinascimento aragonese. Infatti si è già accennato a quell'amore particolare dei napoletani per il poeta mantovano. Virgilio, narrano molte cronache medioevali napoletane, entrò nel castello di Megaride e vi pose un uovo chiuso in una gabbietta che fece murare in una nicchia delle fondamenta, avvisando che alla rottura dell'uovo tutta la città sarebbe crollata. Altre versioni parlano di un uovo sigillato in una "caraffa" di cristallo sempre murata in un luogo segreto del castello con la stessa raccomandazione. Così nasce il nome di "Castel dell'Ovo" che l'isolotto ha sempre conservato, e lo si evince sia dagli scritti antichi che da una radicata tradizione orale. L'ipotesi che ne deriva è questa: Virgilio apprende il metodo di "distillazione" da un seguace dei misteri orfici ancora operante nella campagna napoletana e si procura un recipiente adatto per distillare ed operare nel segreto di "laboratori" ospitati in ville patrizie di nobili che, ottemperando al volere di Mecenate Ottaviano, renderanno al Mantovano del tutto sereno il soggiorno napoletano. Virgilio, che ha studiato proprio a Napoli alla scuola del epicureo Sirone ed ha nel cuore Esiodo e Lucrezio, si addentra sempre di più nella conoscenza segreta della natura iniziandosi ai culti di Cerere e Proserpina allora vivissimi a Neapolis. Ma allora Virgilio è veramente un "mago" pre-alchimi- sta? Perché Dante Alighieri, il più "iniziato" dei nostri poeti, affiliato per sua stessa ammissione alla setta dei Fedeli d'Amore a Firenze, iscritto alla corporazione de' medici e speziali che ha lasciato il più eccelso ed inquietante libro "esoterico" nella immortale Commedia, ha voluto come "guida" proprio Virgilio? Di certo Napoli l'amò moltissimo, e lo ritenne prima di S. Gennaro protettore a tutto tondo. Tant'è che morto a Brindisi nel 19 a.C. onora da sempre la "tomba" napoletana.
Il Lotto
E' probabile che il lotto abbia avuto un'origine romana, in quanto, allora, esistevano dei giochi alla fine dei quali si estraevano dei premi da un' urna. Furono celebri i premi dati da Agrippa Nerone Silla consistenti in vasi, verghe, terre, cavalli, ecc. Tutte le suddette cose si scrivevano su pezzi di legno somiglianti ai nostri dadi e coloro che avevano la fortuna di pescare, tra tante tavolette vuote, quelle con i premi li ricevevano subito. Ma , a parte questa suggestiva e un po' azzardata ipotesi, la storia del lotto è la seguente. Non deve a Napoli bensì a Genova la propria origine ( 1576 ) il gioco del lotto. A quell'epoca i genovesi, già allora celebri per il loro fiuto commerciale, erano soliti scommettere sull'estrazione a sorte che si eseguiva ogni anno per eleggere otto senatori, per questo si chiamò gioco dell'otto modificato poi in lotto. Il sistema era questo: Si mettevano nell'urna centoventi nomi di notabili tra i quali i primi cinque estratti a sorte dovevano ricoprire incarichi al Senato e al Consiglio dei procuratori della repubblica. Si cominciò con lo scommettere su questi cinque nomi. Successivamente i nomi imbussolati divennero solo novanta e furono contraddistinti da un numero; in parallelo le scommesse vennero fatte non solo su uno dei numeri, ma anche su due o su tre, dando così vita all'estratto, all'ambo e al terno, che per parecchio tempo furono le sole combinazioni su cui si basò il gioco. Non potevano sfuggire, a quel punto, ai genovesi, dato il loro spirito estremamente positivo, le possibilità economiche che da quel gioco potevano scaturire: così lo regolarizzarono e lo istituzionalizzarono; nel 1643 il governo genovese decretò una tassa sul lotto e lo considerò oggetto di privativa anche se sempre con finalità benefiche. A Napoli si diffonde un secolo dopo ed è chiamato a lungo " il gioco dell'estrazione per li Seminarj di Genova ". Dalle lotterie private si passa alla lotteria di stato, cioè al lotto. Avvenne nel 1672 e ad introdurlo fu determinante un grave fattore politico. La Spagna aveva bisogno di 350.000 ducati. Il viceré, marchese di Astorga, per non gravare di balzelli il popolo, andava escogitando qualche espediente per racimolarli. Ci fu allora, " un erudito ingegno forastiero " che propose d'introdurre " la beneficiata all'uso di Venezia e Genua ". La novità fu accolta con un certo scetticismo dal popolo che, però, non seppe resistere alla tentazione di sfidare la sorte. I premi che dava il governo di allora erano: 18.000 ducati per gli estratti, 45.000 per gli ambi e 120.000 per i terni. L'estrazione del lotto, fino al 1818, aveva luogo due volte al mese; dal 1818 in poi si effettuava ogni sabato fino all'odierna novità delle due estrazioni settimanali del mercoledì e del sabato.
Il Lupomannaro
Norman Douglas dice che nel Massese, e forse anche altrove, ci sono poche superstizioni che abbiano radici pi salde di quella del licantropo. Ogni giorno sentiamo usare l'espressione lupomannaro come una imprecazione, ed anche un bambino sa che esistono due tipi di lupo: il lupo-cane ed il lupo-cristiano. Certe persone e certi animali posseggono il dono di riuscire ad identificare, anche in pieno giorno, il versipellis quando si presenta sotto sembianze umane. Comunque, una prova certa per riconoscerlo il fatto che egli incapace di attraversare la strada di fronte ad una reliquia o ad un crocefisso ed costretto, perciò, ad indietreggiare dinanzi ad essi. In una capanna isolata, nei pressi di S. Agata, viveva un lupomannaro, cioè un povero contadino che chiamavano il lungo. Quando la luna era piena egli andava in giro, proprio come un lupo, con le mani appoggiate sulle ginocchia e, quando arrivava ad un crocevia, ululava in modo sinistro. Nelle prime ore del giorno i lupimannari si trascinano per le strade ansimanti e gementi: quello il momento buono per curarli. Se si riesce a prenderli alle spalle ed a colpirli con un pezzo di acciaio, un coltello, per esempio, esaleranno in un ululato selvaggio tutta la loro natura di lupi.
Il miracolo di San Gennaro
La leggenda ci dice che le origini di San Gennaro erano nobili e già nel grembo della madre faceva presagire che sarebbe diventato un santo in quanto, quando questa si recava in chiesa, sentiva agitarsi gioiosamente il bambino. Durante la persecuzione di Diocleziano, era diacono della chiesa di "Miseno", Sossio, un giovane trentenne stimato per la santità di vita; in quel periodo Gennaro era vescovo di Benevento e, recandosi a Miseno per partecipare ad una liturgia, ebbe certezza dell'imminente martirio del giovane diacono che, infatti, poco dopo fu imprigionato. Gennaro si recò a fargli visita per consolarlo con il suo diacono Festo e il lettore Desiderio. Riconosciuti come cristiani i tre visitatori furono a loro volta incarcerati e non avendo voluto abiurare la loro fede furono condannati alle fiere nell'arena di Pozzuoli, pene che fu poi commutata in decapitazione e che fu eseguita nel Foro di Vulcano nei pressi della Solfatara di Pozzuoli nel 305. Inizialmente il corpo del santo trovò sepoltura in un luogo detto Marciano nei pressi dei luoghi dove avvenne l'esecuzione, in seguito il vescovo di Napoli Giovanni I volle un sepolcro più decoroso e tra il 413 e il 432 traslò le spoglie del santo nelle catacombe napoletane sulla collina di Capodimonte. In seguito, a causa di una cruenta lotta tra il ducato di Benevento e quello di Napoli, furono trasferite a Benevento e a Montevergine fino a che l'arcivescovo di Napoli Alessandro Carafa ottenne il permesso di riportarle a Napoli. La prima notizia certa del miracolo della liquefazione del sangue di San Gennaro risale al 17 agosto del 1389 ; per la festa dell'Assunta il partito filoavignonese indisse grandi festeggiamenti cittadini per accogliere un'ambasceria proveniente da Avignone nel corso dei quali vi fu anche l'esposizione pubblica della reliquia del sangue di San Gennaro. La cronaca racconta che il sangue si era liquefatto come se fosse sgorgato quel giorno stesso dal corpo del santo e se ne ricava l'impressione che il miracolo avvenisse per la prima volta. Da allora il culto si andò intensificando sempre più con frequenti notizie dell'avvenuto miracolo. Il sangue di San Gennaro è custodito in due balsamari vitrei di piccole dimensioni e di foggia diversa databili ai primi decenni del IV secolo.Tre le date fisse del ricorrente prodigio: vigilia della prima domenica di maggio (prima traslazione), il 16 dicembre (anniversario dell'eruzione vesuviana del 1631) e il 19 settembre (data del martirio). Il sangue per liquefarsi può metterci pochi secondi come mezz'ora o giorni, allora la gente prega perché ciò avvenga. A questo proposito conviene spendere due parole sulle cosiddette "parenti di San Gennaro", che fanno parte del patrimonio etnico e culturale scaturito, nel corso dei secoli, dalla pietà popolare; esse usano espressioni semplici e confidenziali "santo nuosto", "guappone", "faccia ngialluta" e via di seguito, preghiere dialettali da recuperare e assolutamente da non emarginare, sono voce della lingua viva napoletana. Un altro aspetto delle tradizioni legate al miracolo di San Gennaro è dato dalla processione. E' una tradizione che si perde nei secoli, ricorda la prima traslazione delle reliquie del martire dall'agro Marciano alla catacomba extramuraria di Napoli ad opera, come si è detto del vescovo Giovanni I. Anticamente il clero vi partecipava con ghirlande di fiori sulla testa, tradizione abolita nel Seicento. Questa processione, dal popolo detta anche "processione delle statue" per la presenza delle statue d'argento dei santi compatroni, è un autentico spettacolo di fede e di folclore. Sui terrazzi garofani, rose e fiori d'ogni genere, ai balconi coltri di damasco o di broccato, drappi di seta conservati da anni e stesi all'aria per la festa. Ancora più intima, raccolta e densa di commozione la processione di anni fa quando, all'andata percorreva Spaccanapoli tra le case del centro antico. Una pioggia di fiori cadeva dai balconcini delle povere case della vecchia Napoli. La gente si stringeva intorno al santo in quelle stradine che davano più voce alle preghiere e ai canti. Petali di rose al passaggio del Patrono e coi fiori il grido "Viva San Gennaro!"
La leggenda dell'Etna
Un bel giorno Encelado, fratello maggiore dei giganti, decise di compiere la scalata al cielo per togliere il potere a Giove e comandare in sua vece.
Encelado aveva manacce grandi come piazze, barba incolta, sopraccigli folti e grossi come cespugli, una bocca interminabile che pareva una fornace. Quando si arrabbiava, buttava fuori scintille di fuoco, le quali gli bruciacchiavano la barba e i capelli, che però ricrescevano dopo un momento più folti di prima.
I giganti minori lo temevano e non contrastavano il suo volere per paura di vedersi colpire da quelle fiammate così potenti.
Anche quella volta tutti i giganti ubbidirono e si misero subito al lavoro. Per aiutarlo a salire al cielo posero uno sull'altro i cucuzzoli dei monti più alti. Presero il monte Bianco, le montagne asiatiche, il Pindo della Grecia, ma la meta era ancora tanto lontana.
- Prendete i monti africani - gridava infuriato Encelado - e arriveremo al cielo!
Li presero tutti; erano quasi arrivati al trono di Giove quando questi, irato per tanta arroganza, scagliò con la sua possente mano un fulmine che infiammò il cielo e raggiunse i giganti accecandoli e rovesciandoli a terra violentemente.
Encelado e i suoi fratelli, contorcendosi dal dolore, urlavano in modo disumano; ma il dio dell'Olimpo, non ancora sazio di vendetta, con un altro fulmine colpì il cumulo delle montagne che rotolarono di qua e di là schiacciando i corpi dei ribelli.
Encelado, ridotto a pezzi, restò sepolto sotto l'Etna.
Era ancora vivo, ma non poteva muoversi, né riusciva a scuotere la montagna che gli stava sopra: aveva di colpo perduto la sua forza e sentì ardere nel petto la sua furia repressa. Cominciò a buttare fuori dalla bocca fiamme, faville, fumo e brace, che salirono fino al cucuzzolo dell'Etna, da cui uscirono emettendo un rombo violentissimo.
La lava fusa dal respiro di Encelado cominciò a scendere lungo i pendii dei monti distruggendo ogni cosa, praterie, case, fienili e costringendo la gente a fuggire, gridando spaventata:
- L'Etna fuma!
Poi Encelado improvvisamente si calmò. Ma la rabbia del gigante, rimasto immobile sotto la montagna, non si è ancora placata e di tanto in tanto esplode emettendo colate di fuoco.